Il campo di concentramento si presenta come un luogo in cui lo stato d’eccezione è diventato permanente
(Agamben, Mezzi senza fine 1996, p. 36)
Il paradigma dello Stato d’eccezione
Per stato d’eccezione si intende, secondo Carl Schmitt, la sospensione dell’ordinamento giuridico vigente da parte del sovrano, il quale attraverso il suo decisionismo si pone come fondamento dello stesso. Sempre seguendo Carl Schmitt, lo stato d’eccezione scaturisce dalla decisione del sovrano, quando si rende conto che nello Stato regna il caos, o meglio, l’illimitato diventa eccessivo. Mentre condizione indispensabile per la vigenza del sistema normativo è “una strutturazione normale dei rapporti di vita” (Carl Schmitt 1922, p. 39). Nel momento in cui il sovrano decide che questo presupposto manca, il suo atto è di rompere con l’ordinamento attuale, appunto con l’obiettivo di ristabilire la normalità.
Ma se solitamente lo stato d’eccezione è provvisorio (in vista del ristabilimento della normalità), nel caso limite dei regimi totalitari del secolo scorso – a cui Agamben si riferisce seguendo un’indicazione di Walter Benjamin – invece, questo diventa permanente. Inoltre l’intenzione con cui viene istituito, o si potrebbe dire imposto, è il punto decisivo. Contrariamente al caso giuridico classico preso in esame da Schmitt, lo scopo del sovrano, negli Stati totalitari, non è quello di ristabilire l’ordine giuridico, ma piuttosto di conservare il potere, ed è proprio da qui che si origina un caos ben peggiore.
Il paradigma del campo di concentramento
Nel caso limite del campo di concentramento, che Agamben ha definito come spazio paradigmatico della biopolitica – in cui si “giocano” le sorti della nuda vita –, è possibile rintracciare, oltre alle crudeltà e gli orrori, non solo il funzionamento della biopolitica ma anche uno strato più profondo, che è il funzionamento della vita nella sua valenza propriamente antropologica.
Nel campo sono all’opera due dinamiche complementari. Da un lato, il sovrano – e con questo termine nel campo possiamo indicare tanto il gerarca nazista quanto il Kapos (capo baracca) – ha il potere di decisione sugli internati. Dall’altra parte, un debole potere di decisione viene conservato dai “sudditi” sempre e comunque. Almeno fino a quando è possibile conservare la propria umanità. Dunque, non solo il sovrano, ma anche il suddito ha una sua voce in capitolo nello stato d’eccezione. Proprio perché quell’atto di decidere non è del singolo, ma di tutti gli uomini.
Seguendo le orme di Primo Levi
È Primo Levi, con la sua terrificante, quanto accurata descrizione della vita all’interno di Auschwitz con Se questo è un uomo, e se vogliamo con I Sommersi e i Salvati, a darci un’indicazione in questo senso.
Il primo atto, all’interno del lager, è volto alla disumanizzazione dei prigionieri, con esso avviene una vera e propria “perdita della presenza”, per restare in tema antropologico, però contrariamente a quanto avviene nel rito questa non è riconquistata, o almeno questo è l’obiettivo del sovrano. Questa avviene innanzitutto dal punto di vista fisico con la rasatura dei capelli, la vestizione con i camicioni a righe e zoccoli di legno, che crea un’omologazione tra i prigionieri. In un secondo momento, la spersonalizzazione interviene sulla biografia stessa del soggetto. Infatti, il prigioniero viene privato di ciò che ha di più personale e identificativo: il suo stesso nome. Questo viene sostituito da un numero tatuato sul braccio. Ecco che si ha una prima riduzione dei prigionieri, già privi di ogni diritto, a nuda vita. I nazisti, dalla loro prospettiva, non hanno più davanti un uomo ma solo un numero. L’internato, da parte sua, nonostante le privazioni, resta ancora un uomo, almeno finché non soccombe.
La vita nel campo di concentramento è immersa in una zona di indistinzione, non è vita, non è morte. Una babele linguistica l’ha definita Primo Levi, a causa della diversità di lingue parlate dai prigionieri unite al tedesco animalesco fatto di insulti e ordini urlati dei nazisti.
la confusione delle lingue è una componente fondamentale del modo di vivere di quaggiù; si è circondati da una perpetua Babele, in cui tutti urlano ordini e minacce in lingue mai prima udite
(Se questo è un uomo, Primo Levi p.32).
La vita dell’internato è puntellata da ordini incessanti, molte volte confusi e contraddittori, che chiaramente limitano il raggio d’azione in cui è possibile muoversi. “Il regolamento del campo è favolosamente complicato…un groviglio di leggi, di tabù e di problemi” (Levi 1958, p. 28-29). Solo chi sa orientarsi in questo caos può sopravvivere.
Dai diversi modi di agire/reagire a tale situazione possiamo estrapolare significative caratteristiche antropologiche. Come si comporta l’uomo in una situazione di totale privazione e sommersa dall’indeterminato?
La riposta è che l’uomo cerca sempre di ristabilire una parvenza di normalità. Se ci riesce o meno è la differenza che passa tra la vita e la morte. Ci sono due possibili vie che gli internati hanno potuto imboccare, e queste rispecchiano le due categorie prese a prestito da Primo Levi: i sommersi e i salvati.
I salvati
All’interno della categoria dei salvati troviamo quelli che ancora sono in grado di orientarsi. Ciò avviene in primo luogo, proprio trovando come rimedio all’indistinzione una propria regolarità, cioè un nuovo assetto che permetta di stabilire un criterio stabile fra applicazione e regola/divieto. I salvati riescono a trovare un giusto equilibrio fra l’abitudine a eseguire un comando e l’infrangerlo all’occorrenza. Quest’ultima è una pratica essenziale in quanto se vengono violati i divieti si subisce una punizione, ma allo stesso modo se si seguono pedissequamente si va incontro a morte sicura, per l’estrema fame e fatica. L’importanza di crearsi delle abitudini, o anche un riferimento stabile viene fuori anche quando il prigioniero, nel groviglio in cui si trova, riesce a delimitarsi un proprio spazio. Una nicchia in cui può conservare la sua umanità, una propria normalità. Fatta di piccole cose come mantenere buoni rapporti fra vicini, (non dimentichiamo che ciò non è affatto scontato, nel campo non c’è nessun presupposto affinché si verifichi una qualche forma di solidarietà), e poi, un senso della proprietà rispetto ai pochissimi oggetti (cucchiaio, scarpe), ecc. Questa regolarità l’internato riesce a crearla proprio in riferimento “al modo di comportarsi comune agli uomini”, per dirla con Wittgenstein. Nelle situazioni di vita normale, rimane sullo sfondo, in quando comprende quelle pratiche indiscutibili come il parlare, mangiare, chiacchierare, bere, ecc. Viene in primo piano nei momenti di crisi (quale esempio migliore di uno stato d’eccezione!).
Ma c’è da tenere in conto il fatto che stiamo parlando di uno stato d’eccezione che è diventato permanente, dunque ciò che noi intendiamo con il termine comune ha qui una ristrutturazione. Si ha un cambiamento di quelle stesse preposizioni grammaticali, che Wittgenstein pone come zona indubitabile. Attraverso condizioni materiali mai viste prima, si assiste ad una modificazione di quelle stesse pratiche basilari nella vita di un uomo. Lo stesso Levi afferma “Per la prima volta ci siamo accorti che la nostra lingua manca di parole per esprimere questa offesa, la demolizione di un uomo”(Levi 1958, p. 20). L’insufficienza è dovuta al fatto che la lingua storico-culturale non riesce a contenere l’istituzione di un nuovo modo di vivere, o meglio sopravvivere. Si ha la necessità di coniare nuovi termini che abbiano la capacità di descrivere le situazioni di fame, freddo e fatica in cui si trovavano, perché tali parole non sono in grado, da sole, di spiegare. La scarsa nutrizione imposta non ha niente a che fare con il nostro modo mangiare, lo stesso bere è abolito, non ricevono acqua. Inoltre si ha una conseguente ristrutturazione del pensiero. L’unico scopo è l’imminenza biologica, la soddisfazione dei bisogni qui e ora, senza la capacità di poter pensare in prospettiva distaccata anche solo al domani. La cosa essenziale da notare è che seppur mutato questo fondamento della vita di ogni uomo è comunque presente in questa categoria e il suo riconoscimento fa si che si abbia un ritorno della presenza. Dopo la spogliazione il riconoscersi uomini, secondo il senso comune, attua il ritorno alla presenza dell’anthropos.
Mi ha aiutato a sopravvivere… la volontà di riconoscere sempre, nei miei compagni e in me stesso, degli uomini e non delle cose, e di sottrarmi così a quella totale umiliazione e demoralizzazione che conduceva molti al naufragio spirituale. (Ivi, p. 212 ).
I sommersi
Quello che Levi identifica come naufragio spirituale è l’altra parte della medaglia, purtroppo la massima parte. Sono quelli che non sono riusciti più a riconoscere in sé degli uomini. Essi appartengono alla categoria dei sommersi. O meglio ricordati, nel gergo del campo, come i Muselmänner. La descrizione che ne fa Levi è la rappresentazione della privazione totale, anche dello stesso pensiero.
È qui che troviamo un vero e proprio regresso antropologico, cioè il decadimento del prigioniero ad una fase di non più umanità. “Si esita a chiamarli vivi: si esita a chiamar morte la loro morte, davanti a cui essi non temono perché sono troppo stanchi per comprenderla”(Ivi, p. 91-92). L’uomo animale culturale, privato della sua Cultura (nel senso più ampio) resta solo con la sua animalità. Perde la sua storicità. E a questo livello non è più neanche capace di provvedere alla sua sopravvivenza fisica immediata. Il prigioniero è sprofondato in questa fase perché non ha più potuto/saputo discernere dal groviglio di leggi e divieti (Ivi, p. 91). Non ha potuto/saputo ricavare da un comando fatto in una lingua straniera (quella dei nazisti è il tedesco, sconosciuto a molti internati) il da farsi. Perché ormai privo di ogni riferimento essenziale per orientarsi, privo de “il modo di comportarsi comune agli uomini” – che è tra l’altro il sistema di riferimento mediante il quale interpretiamo una lingua che ci è sconosciuta – . La scomparsa di questo quadro comporta la regressione dell’uomo dalla parola al grido animale.
Vittime, che non sanno opporre con un seppur debole basta così, se non nei confronti del sovrano almeno costruendosi una propria nicchia nei confronti del massacrante caos prodotto da divieti, si dirigono alla fine dei loro giorni da uomini come “i ruscelli che vanno al fiume” (Levi 1958, p. 91). Senza la benché minima opposizione scavalcano la soglia che divide l’umanità dalla non più umanità, non potendosi più appigliare neanche al fondamento del comune modo d’agire. Perché uomini non lo sono più.
In ultima istanza quello che separa i sommersi e i salvati è la capacità di quest’ultimi di ritagliarsi all’interno dello stato d’eccezione permanente uno spazio del normale e rimanere così, nonostante tutto, sovrano di se stessi.
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