Gli innocenti di Buhran Sönmez

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Gli innocenti di Buhran Sönmez

La mia infanzia era il mio paese: più crescevo, e più me ne allontanavo, più lei cresceva dentro di me.

– Incipit de Gli innocenti

Leggere Buhran Sönmez è ritrovare la Turchia di Ohran Pamuk, tra storie vere e leggende, tra malinconia e ricerca della felicità, tra un restare legati alla memoria e il costruire una nuova identità.

Sönmez, al contrario di Pamuk, scrive non dal di dentro, ma dalla prospettiva privilegiata di colui che è posto al di fuori pur restando “un dentro”, l’esiliato. Accostare i termini esilio e privilegio potrebbe sembrare un azzardo, ma è quanto meno giustificato dal fatto che quando si parla di linguaggio e di letteratura guadagnare un seppur piccolo spazio, un agio, può avere grandi risultati sulla visione d’insieme. L’osservatorio geografico del privilegiato, in questo caso, è Cambridge. L’occhio che osserva è quello dello studente e interprete part-time Brani Tawo – alter ego dell’autore –.

Brani Tawo è lo sdradicato, doppiamente “posto fuori”. La sua appartenenza alla minoranza etnica curda in Turchia produce la prima forma di esclusione. Il curdo, e non il turco, è la sua lingua materna. La valle di Haymana, e non la Turchia, è la sua infanzia. La seconda forma di esclusione la esperisce in esilio, dove è forzato a causa del suo passato come oppositore politico.

Ecco dunque lo sguardo di Brani Tawo irradiarsi, da questo preciso punto, come un caleidoscopio. Allora le distanze si fanno vicinanze, i confini si dissolvono e le narrazioni si accavallano. Questo suo dissezionare sprazzi della memoria collettiva del suo villaggio – in cu compaiono le mille e una storia di Kewê, di sua madre, della donna dal volto d’artiglio, di Ferman, etc.. – li fa diventare recuperabili e a portata di mano, così come lo sono i momenti che sta esperendo a Cambridge a spasso per i mercatini o sotto il melo dell’Università.

Questo sguardo caleidoscopico è in qualche modo glissato non solo dalla distanza fisica, ma anche dalle lenti attraverso cui guarda al passato della sua terra. Tra lui e la realtà del suo villaggio sembra porsi il filtro di una macchina fotografica. È proprio questo oggetto l’iniziale obiettivo della sua quête. Brani Tawo, in una delle prime sequenze, entra in un negozietto di antiquariato con la speranza di trovare una copia della macchina fotografica raffigurata su una vecchia fotografia che porta con sé. Una foto a lui cara in quanto è l’unica testimonianza in grado di restituire il volto del suo defunto e amato zio Hatip, raffigurato in compagnia del fotografo Tataro.

La macchina fotografica oltre che oggetto ultimo della ricerca si rivelerà l’espediente non solo per raccontare la storia della sua comunità, ma anche per innescare l’incontro con Feruzeh, una dottoranda di origine iraniana. Feruzeh appare subito essere l’anima gemella di Brani Tawo. Esattamente l’altra metà della mela. I due giovani hanno innanzitutto in comune l’amore per la poesia e per la letteratura. Come se non bastasse un’unione basata sulle parole, i due condividono uno stesso destino: quello dell’esilio che li ha strappati dalle loro terre natie.

E lo sa bene il senza Patria, la solitudine che non trova conforto alcuno può trovare riscatto solo in un’unione che va al di là delle parole, in quel attimo in cui vede nell’altro la propria Patria. 

Sulla vita e sulla morte

Oltre ad un romanzo di un amore nascente Gli innocenti è un racconto del legame fra i vivi e i morti. Sempre inclusi nella loro esclusione. La morte che nei racconti del villaggio della sua infanzia sembra essere una presenza tangibile, sempre dietro l’angolo, si avvicina a Brani Tawo e lo oltrepassa, lasciandolo in uno stato di perenne spossatezza fisica, con tanto di svenimenti frequenti e un’insonnia perenne.

Ancora una volta, c’è un luogo privilegiato dal quale osservare questo rapporto. Il luogo dell’esclusione inclusiva è il cimitero. In uno dei passaggi più intensi e riflessivi del romanzo, Brani Tawo vi si reca al cimitero di Cambridge per visitare la tomba del buon caro Wittgenstein. La giornata è immancabilmente piovosa, l’atmosfera è rarefatta e il confine tra i vivi e i morti sembra farsi più labile.

È lo stesso autore a darci delle indicazioni di lettura del libro, non solo attraverso i fitti dialoghi con Feruzeh e con la madre di questa, ma, soprattutto, nelle conversazioni con i becchini e la donna incontrata proprio in occasione della visita al cimitero.

“Quando una persona si trova immersa in una certa cosa, non riesce a comprendere il tutto. Per avere una visione d’insieme, occorre spostarsi all’esterno”.

“E questo è l’esterno?”

“Credo…” “I morti sono al di fuori della vita, e tu per capire la vita sei venuto qui, è così?”

“Circondati dai morti percepiamo la vita, non la morte,” dissi. “Se non ci avviciniamo al nulla, non possiamo raggiungere il significato dell’esistenza”.

– (Dialogo al cimitero tratto da Gli innocenti)

Questo è il paradigma che segue Gli innocenti e che si applica alla perfezione allo stesso Buhran Sönmez. Dalla sua posizione esterna alla sua terra, circondato di “stranieri” dalla sua prospettiva, in questa opposizione geografica e culturale, ma forse anche dialettica, che è Cambridge invece di rassegnarsi alla perdita delle radici, Buhran Sönmez  trova il modo, tramite la narrazione, di restare legato alla sua comunità e così facendo ricostruisce il significato della propria identità. Un perfetto “reclaim the narrative” della sua storia.

A Feruzeh che gli chiede “Se ti seppellissero qui, cosa sarebbe per te questa terra?” La risposta di Brani Tawo arriva quasi scontata “La pianura di Haymana”. Ma Tari Brawo “non ha fretta di finire nella fossa”. Nel suo presente, la sua Patria la puoi trovare negli occhi di Feruzeh.

Scheda del libro Gli innocenti

Gli innocenti trama  e recensione

Autore: Buhran Sönmez

Titolo: Gli innocenti (titolo originale Masumlar)

Casa editrice: Nottetempo, Milano

Anno di pubblicazione: 2024 (prima pubblicazione 2011)

Numero di pagine: 208

Traduzione di Nicola Verderame

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