
Con Il mio nome è Rosso Ohran Pamuk ci porta nella Turchia del 1591, in un’epoca di conquiste in cui i sultani si contendono il potere mentre la gente comune lotta per la sopravvivenza. In questo contesto storico, se vogliamo non molto dissimile dalle tirannie con teatro bellico in Europa, l’arte della miniatura, che sta vivendo il suo momento di gloria, si avvia lentamente verso il suo tramonto. Proprio la cerchia dei maestri miniaturisti più famosi di Istanbul, con i suoi intrighi e gelosie, fa da cornice a questo minuzioso esemplare di miniatura turca narrata che è Il mio nome è Rosso del premio Nobel Ohran Pamuk.
Trama – Nero, il protagonista di questa storia, è un uomo di 36 anni che fa ritorno a Istanbul, su richiesta dello zio, dopo un’assenza di 12 anni – in cui ha lavorato come emissario ai servizi dei Pascià nei territori della Persia –. Lo zio Effendi è stato incaricato dal Sultano in persona di realizzare un libro commemorativo per il millenario dell’Egira, da realizzarsi in assoluto segreto, in cui saranno presenti i disegni dei maestri miniaturisti più celebri del laboratorio del Sultano.
A questi ultimi – dai suggestivi soprannomi: Oliva, Farfalla e Cicogna – viene fatta richiesta di sperimentare qualcosa di nuovo, un’arte quasi ad imitazione dei maestri veneziani. Zio Effendi vuole che sia Nero a scriverne la storia. La faccenda s’intorpidisce, quando viene ritrovato il cadavere di uno dei miniaturisti, specializzato in dorature, che ha lavorato al libro. Lo zio Effendi, nonostante le paure, vuole caparbiamente portare a termine il libro e dovrà essere Nero ad occuparsene.
Nero da sempre innamorato della bella quanto scaltra cugina Şeküre – figlia unica dello zio Effendi – accetta con il secondo fine di ingraziarsi lo zio e poterne sposare la figlia, come aveva già tentato in giovane età. Şeküre che a 24 anni è già vedova – o almeno si presume, visto che il marito non è ritornato dalla guerra dopo 4 anni – , con due figli a carico, sfrutta l’innamoramento di Nero a suo vantaggio, gli richiede delle “prove d’amore” ma in questo modo lo invischia in una vicenda più grande di lui.
Una vicenda rossa come il sangue zampillante dalla testa fracassata di Raffinato Effendi, il primo miniaturista ucciso, ma rossa anche come il colore del prezioso inchiostro, contenuto nel calamaio mongolo portato in dono da Nero allo zio, che ricopre le pagine del libro segreto.
Una narrazione a più voci
Il genio letterario di Ohran Pamuk si rivela nell’eleganza della scrittura e nella profondità malinconica delle immagini mentali che questa riesce a creare. Ma non solo. I libri di Pamuk spiccano per il gusto estetico del dettaglio, così come per l’originalità delle monumentali costruzioni narrative. Se ne accorge subito il lettore de Il mio Nome è Rosso quando fin dalle prime battute diventa chiaro che è il morto, il primo del libro, che sta raccontando la sua stessa fine.
E andando avanti con l’infittirsi della trama è ora l’uno ora l’altro personaggio a rischiarare le vicende dal suo punto di vista, con la visuale limitata, a sua disposizione – Nero, Şeküre, Ester, lo zio, i miniaturisti, lo stesso assassino e non solo – a turno, si piegherà anche il mondo inanimato alle ragioni della narrazione, della finzione letteraria che non conosce limiti.
Così persino un albero, un cane, un cavallo – che non sono l’essere stesso, ma il suo disegno – ci racconteranno le loro storie, indirizzandosi direttamente al lettore. In realtà, nella prima cornice metaletteraria costruita dall’autore, questi narreranno per bocca del cantastorie che intrattiene il suo uditorio nei caffè, come era tipico nell’antico Impero ottomano.
La metaletteratura ne Il mio nome è Rosso
Ancora una volta l’abile Pamuk costruisce una struttura metatestuale a più livelli. In una prima cornice, quella più apparente, troviamo il giallo: un uomo è stato ucciso e c’è da trovare l’assassino. All’interno di questa cornice narrativa, che si rivela solo un espediente per discutere dello stile, si colloca l’arte della miniatura che occupa il cuore del libro. Ma c’è ancora un altro livello, che possiamo immaginare come una grande matrioska che incorpora dentro di sé tutti gli altri metacontesti. In questa ultima grande matrioska regna il demiurgo dell’opera, l’artista Ohran Pamuk.
Un metagiallo
Basterebbe che mi facessi venire in mente un solo dettaglio legato all’omicidio, e capireste tutto. E questo mi impedirebbe di essere un assassino senza nome e senza identità che si aggira tra di voi come un fantasma, mi porterebbe a essere un colpevole qualunque che si è fatto beccare, un volto visibile, un uomo da decapitare.
Se permettete non vi rivelerò tutto, se permettete terrò alcune cose per me. E persone fini come voi cercheranno di scoprire chi sono dalle mie parole e dai miei colori, come se guardassero le impronte per trovare il ladro. E questo ci porta al nocciolo della questione, adesso molto in voga, lo stile. Il miniaturista ha un suo stile personale, un suo colore, una voce? Li deve avere?
– Il mio nome è Rosso di Ohran Pamuk
Chi è l’assassino senza nome che si aggira nelle fredde notti per le strade innevate di una Istanbul in cui il denaro non ha più valore, perché svalutato dalle monete false che i veneziani hanno messo in circolazioni, ma anche dalla miserie delle guerre e della peste?
Il lettore vorrà senz’altro individuare l’assassino e scoprire il mistero intorno al libro segreto, per farlo si lascerà trascinare dalla tensione delle pagine, ma, contemporaneamente, sarà rallentato, forse anche fermato, dalla meticolosità della scrittura, dalle interminabili descrizioni delle miniature, scritte con la stessa pazienza con cui i miniaturisti disegnavano sempre lo stesso oggetto – ripetuto secondo il modello degli antichi maestri di Herat –.
Dinamicità e lentezza si intersecano perfettamente ne Il mio Nome è Rosso. Un libro che sarebbe riduttivo definire un giallo. Più che un giallo Il mio nome è Rosso può essere paragonato, così come il Libro nero, a un’indagine semiotica, come quelle che si dipanano ne Il nome della Rosa o Il pendolo di Foucault di Umberto Eco. L’assassino si nasconde, cancella le sue tracce. Ma le sue tracce, gli indizi che troviamo nei gialli, sono qui lo stile del miniaturista. Ed è lo stile probabilmente la parola chiave di questo romanzo.
L’arte della miniatura e lo stile
Pamuk darà degli indizi di stile, al lettore che saprà leggerli, ma proverà anche a depistarci. Quel che è certo: il colpevole va cercato nella cerchia dei miniaturisti. Qui giungiamo al secondo livello metaletterario. Che cos’altro è lo stile se non la traccia di una presenza (quella dell’assassino), il segno semiotico lasciato (dall’artista). Così come l’assassino si nasconde, anche il miniaturista nasconde la sua presenza nel disegno, che non deve contenere nessuna indicazione di stile personale.
I miniaturisti turchi disegnano sempre con gli stessi tratti universali, ereditati dagli antichi maestri. Non disegnano l’albero individuale, concreto e diverso da un altro, ma la sua idea “il suo significato”, che deve sembrare come fatto dallo sguardo di Allah. Inoltre i disegni non devono parlare per sé, ma sono piuttosto delle rappresentazioni di scene, il completamento di storie leggendarie conosciute – come Sirin che si innamora di Cosroe guardandone il ritratto –.
Il pretesto dell’arte apre una disputa ben più ampia, sempre presente nell’opera di Pamuk, quella di una Turchia lacerata tra il rispetto delle tradizioni islamiche e il fascino che esercita il moderno che arriva dall’Europa. Da Venezia, in questo caso. Se il vecchio maestro Osman, capo maestro del laboratorio di miniatura, impersona i valori della tradizione, l’altra parte della disputa è impersonata da zio Effendi.
È proprio quest’ultimo ad istillare nel Sultano l’idea del libro segreto, quando lo persuade a farsi ritrarre alla maniera dei pittori veneziani. Arte che ha avuto modo di ammirare in uno dei suoi viaggi come Ambasciatore per il Sultano. Zio Effendi subisce il fascino dei ritratti che consegnano l’individualità del volto. Un volto riconoscibile e reso per sempre immortale. È inoltre affascinato dall’uso della prospettiva, usata dai veneziani, ma allo stesso tempo la considera blasfema perché restituisce lo sguardo del singolo, invece che di Allah, su una realtà concreta fino ad arrivare all’empietà di rendere una moschea sullo sfondo più piccola di un cane in primo piano.
I miniaturisti, coinvolti nel progetto, sono preoccupati di essere considerati infedeli e quasi lacerati dalla questione dello stile. Se da una parte averne uno costituisce per i credenti islamici un peccato di superbia e quindi un’offesa alla religione, dall’altra parte, in quanto artisti desiderosi di esaltare la loro individualità e unicità, ne sono chiaramente tentati.
L’artista Pamuk
Così come l’assassino e il miniaturista, infine anche Pamuk è alla ricerca del suo stile. Uno stile che ha chiaramente trovato in quella tensione tra Oriente e Occidente, nella narrazione di quel tra.
Pamuk si è confermato nel tempo non solo uno scrittore, ma anche un maestro dell’arte della scrittura capace di porre il suo stile sempre al centro delle sue opere. Cos’altro è se non stile quel marchio di riconoscimento alla Hitchcock che comprare in ogni suo singolo libro?
Ne Il mio nome è Rosso i temi presenti sono sempre quelli cari a Pamuk, ma l’autore sembra ben rimescolare le carte e creare ogni volta, con gli stessi ingredienti, o si potrebbe dire con gli stessi colori, gusti e sfumature sempre nuove.
Il mio nome è Rosso, così come le miniature del grande maestro Behzat, non ha bisogno della firma. Lo stile di Pamuk parla per lui.
Scheda del libro Il mio nome è Rosso

Autore: Ohran Pamuk
Titolo: Il mio nome è Rosso (Benim adım Kırmızı)
Casa Editrice: Einaudi
Anno di pubblicazione: versione originale 1998, italiana 2001
Numero di pagine: 456
Tradotto da Marta Bertolini e Semsa Gezgin
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